"L'Aquila, autobiografia di una nazione



IL 6 Aprile L'Aquila viene colpita da un forte terremoto. Sua maestà grande natura, c osì pacata e distratta da non sentire il peso dei palazzi pesanti sulle proprie faglie, così generosa e silenziosa da far costruire case sui propri terreni fragili e franabili, ma cosi maestosa ed irrompente che con un sussulto da voce baritonale, ci ricorda quanto siamo presuntuosi, quanto dovremmo  rispettarla, abbracciarla, accoglierla prima che si svegli impetuosamente. Di chi è la colpa? Dopo una simile tragedia, oltre al dolore e alla doverosa sete di giustizia per chi ha dormito sotto tetti di marzapane, scoppia la caccia al colpevole, un grande classico umano post tragedia: sui giornali e nei bar trafile di nomi, cognomi, lezioni di tecnica delle costruzioni, paragoni tra la nostra misera Italia e la grande  Cina "dove con case del futuro affrontano, illesi  qualsiasi terremoto", senza rammentare il poco futuro dei centri storici italiani disegnati con  castelli cinquecenteschi.

Di chi è la colpa? Solo una domanda trafiggeva l'Italia e l'Aquila, troppi colpevoli alla gogna, nomi che si intrecciavano l'un l'altro: assessori, sindaci, politici, fisici, preti  che non avevano benedetto la città, più di tutti il destino beffardo.  Mentre tutti cercavano la colpa, i palazzi continuavano a crollare e la gente a fuggire; le crepe delle case gridavano e gridano parole in antitesi alla colpa  come volontà, correttezza, rispetto per le norme, parole troppo stufe di essere pronunciate quando le tamponature sono già corrose. Le colpe se esistono, sono da ritrovare sia nella natura beffarda, sia nel non saperla accogliere, ma soprattutto nel carattere irrequieto di un'Italia generale che raccoglie i propri frutti malsani. Nelle costruzioni in zone rosse esiste, invece, un'ossessione tragica e forse doverosa per la caccia alla colpa; la stessa ossessione che non esiste nell'evitarla.

A raccontarci della caccia al colpevole  e dell'evasione alle norme c'è un libro  "destra e sinistra italiana" di Arianna Montari, nota professoressa di sociologia, scienziata politica, il libro ci racconta  di un modus vivendi, tutto all'italiana, chiamato  "volemose bene"; un modus vivendi che alberga in Italia dagli anni 50 post guerra: forse gli italiani, troppo stanchi di aver subito vent'anni di ingiustizie, non avevano  più la voglia di cercare e operare legalità ,piuttosto pretendevano amore, compassione e assistenza dagli altri. Lo stesso volemose bene che si percepisce la sera di un 21 agosto, nel pieno dei festeggiamenti per la Perdonanza, noto evento religioso aquilano accompagnato da musica e spettacoli ,un "volemose bene" di voci disperse e concitate che si muovono lungo un corso, il principale dell'Aquila, si salutano e si scontrano, quasi non contengono l'emozione e la paura di camminare lungo  una strada che li ha ciacciati sei anni prima, voci forti ma anche deboli, cosi forti da creare un coro cacofonico, così poco compatte e impaurite da disperdersi nei puntellamenti dei palazzi. La stessa strada sembra fotografare una sera di agosto di tanti anni fa, in una città evidentemente cambiata.

Nessuno contiene l'emozione perchè nessuno riesce a camminare tra la folla impacciata di una città giornalmente  deserta .La  gente si blocca, è goffa , si  guarda e non si saluta, è difficile riconoscersi, è quasi sgradevole  l'odore del sudore estivo misto a profumo che ,due giorni prima, faceva da cornice a quattro mura di cemento di un supermercato o di un centro commerciale. E' proprio la paura che si cela dietro  ai sorrisi, è l'odore di fritto dei centri commerciali che ostacola serene passeggiate dopo essersi posato irrimediabilmente sulle t-shirt della gente. Come tutte le grandi emozioni  sarà bellissimo rivedere il giorno successiva la cugina nel bar vecchio;  sarà bellissimo ripercorrere le strada d'infanzia con lo stessa felicità dell'ultimo giorno di scuola ma tre giorni dopo sarà un ricordo da scrivere in una poesia troppo melense. La vita quotidiana non si racconta mai, si vive. Dopo sei anni L'Aquila ha bisogno di un pò di banalità, di qualcuno che sieda sulle panchine nascoste, di bambini  assetati dopo una corsa  che bevano alle fontane, dell'odore del pane nei vicoli.

L'Aquila non cerca più colpe; si è stufata di colpevoli e  benefattori, cerca normalità, cerca  voci che le facciano compagnia, cerca fidanzati che si tengono mano per mano sotto i portici, cerca studenti fuori sede nelle case del centro che raccontino agli altri  quanto è bello il mercato in Piazza. I palazzi puntellati dell'Aquila non parlano più di colpa, sono quasi rassegnati a vedere noi che non abbiamo più tempo per ricordare quanto i nostri nonni costruivano monumenti forti  senza tecnica, quanto i nostri padri costituenti auspicavano vigore e forza. L'Aquila ci guarda avvilita dato che preferiamo locali a luci arancioni piuttosto che il silenzio di una piazza ferita. Ricostruire? A volte questa parola suona quasi utopica, sembra provenire da mondi esistenti  in qualche canzone ottimista, sembra esistere solo nei discorsi carismatici e persuasivi dei politici, poeti o  giornalisti. Nel frattempo l'Aquila, come l'Italia aspetta  e sogna ferita quella canzone utopica che inizia con "insieme" e finisce con" normalità".


                                                CHIARA ALBERTA SANTUCCI

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