Oggi quasi nessuno cita più il saggio di Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, che oltre una decina di anni fa fece scalpore con la sua teoria del ‘necessario’ scontro fra civiltà, che qualcuno prese per un libro ‘profetico’ quando fummo costretti, l’11 settembre del 2001, ad assistere al tragico ed epocale crollo delle Torri gemelle. Non fu notato con sufficiente energia, in quei giorni, che il best seller di Huntington seguiva, aggiungendogli quel bel po’ di condimento neoconservatore che allora andava di moda, una traccia illustre ma ‘negata’ e per certi versi perfino ‘maledetta’, che evidentemente lo studioso americano si augurava che noialtri vecchi europei avessimo dimenticato quel tanto che bastava per non accorgersi del suo semi-plagio concettuale.
Oswald Spengler, Il tramonto dell'Occidente
Ma il pesante ‘saggio a tesi’ di Huntington, se poteva somigliare al suo vecchio e venerabile modello per la sua storicamente poco difendibile presentazione delle diverse civiltà destinate a scontrarsi nel mondo contemporaneo, nulla possedeva del fascino barocco e romantico del suo splendido e terribile modello: il Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente) di Oswald Spengler. Mentre Spengler aveva trattato con disperata lucidità, una novantina d’anni or sono, di quello che gli appariva come il tramonto della sua civiltà, Huntington non si era nemmeno accorto, nel suo libro per molti versi apologetico del suo Occidente, quello maturato appunto tra le guerre mondiali e incentrato sugli Stati Uniti d’America, di star scrivendo l’epitaffio del ‘secolo americano’. Spengler aveva composto una solenne marcia funebre d’una civiltà che ormai gli appariva morente; Huntington aveva redatto l’elogio trionfale d’una civiltà sul serio al tramonto senza nemmeno supporre di starne componendo l’estremo elogio. In effetti, Der Untergang des Abendlandes usciva tra 1918 e 1922, ottenendo un travolgente successo: l’ormai quarantenne ‘ filosofo della morfologia storica’, nato a Blankenburg in Turingia nel 1880, aveva assistito al naufragio della sua Germania e compreso perfettamente che la Prima guerra mondiale era in realtà la fine non solo dell’imperialismo del ‘secondo Reich’, bensì di tutto un mondo. Si sentiva ormai vecchio, Spengler, per quanto gli restassero ancora alcuni anni da vivere (sarebbe morto a Monaco nel 1936): ma, al pari del principe di Metternich, avrebbe ben potuto dire: «Muoio con l’Europa: sono in buona compagnia». Esattamente nello stesso torno di tempo, nel 1919, veniva inaugurata nella Columbia University di New York una cattedra di Cultura e civiltà occidentale: si sarebbe trattato di studiare il nuovo frutto della storia contemporanea, quella cultura occidentale della libertà, del progresso, della ricerca della felicità che era nata e si era affermata nel corso dell’Ottocento negli States e che ormai stava prendendo il suo posto nel mondo scalzandone la vecchia cultura dell’autoritarismo e delle tradizioni ormai esaurite: e quella cultura non era un generico ‘Oriente’, bensì proprio l’Europa.
L’idea novecentesca di Occidente, affermatasi dopo il 1945 come quella del ‘Mondo Libero’, nasceva sotto il segno della dichiarazione di avvenuto decesso della ‘vecchia’ Europa. Ma proprio la coincidenza dell’uscita del capolavoro spengleriano e dell’inaugurazione della cattedra newyorkese, che sembravano confermarsi a vicenda, ci aiuta oggi a confrontare la miopia di Huntington con la visionaria lungimiranza di Spengler.
Mentre la ‘civiltà occidentale’ per un verso sembra divenuta in effetti il basic English, la koinè diàlektos di tutto il mondo ‘catturata’ dai nuovi popoli e dalle nuove culture che si affacciano all’orizzonte del terzo millennio – Cina, India, Brasile –, se ci volgiamo alla nostra storia passata si ha l’impressione che la tesi ‘ciclica’ dell’avvicendarsi delle civiltà di cui Spengler si era fatto portatore ispirandosi a Goethe, a Dilthey e a Nietzsche abbia oggi recuperato una sua tragica plausibilità.
Oswald Spengler
Goethianamente affascinato dalla fisiologia delle specie viventi, Spengler aveva concepito una ‘storia naturalistica universale’ caratterizzata dalla sequenza di otto civiltà monadi che, come piante, nascevano, fiorivano, davano frutti, avvizzivano e morivano: una grandiosa visione deterministica, da scienziato dell’Ottocento quale in fondo era, al servizio della quale egli poneva un’immensa, sconcertante erudizione capace di elaborare un tessuto fittissimo di analogie tra culture diverse. Si rileggono oggi con disagio ma anche con stupore e ammirazione le pagine che Spengler dedica al confronto tra il ‘declino’ della civiltà europea e quello della civiltà ellenistico-romana. Per Spengler le vicende umane sono segnate non già da un continuo progresso, bensì da un processo di decadimento. Mundus senescit.
I due pilastri di questa rilettura della storia sono da una parte la teoria greca e nietzscheana dell’’Eterno ritorno’, profondamente opposta al finalismo biblico ed hegeliano, dall’altra la cultura della Decadenza. Dinanzi alla rovina del vecchio equilibrio mondiale avvenuta con la guerra, che aveva indirizzato alla distruzione tutte le risorse tecniche, scientifiche e sociali della Modernità, Spengler diveniva un profeta del nuovo mondo come tabula rasa, civiltà della forza, delle masse e delle macchine. In ciò il suo messaggio conservatore finiva con il confinare con l’energia nihilistica e rivoluzionaria delle nuove avanguardie, con la ‘Nuova Obiettività’ di Dix e di Grosz che denunziavano la crudeltà e l’ingiustizia del nuovo mondo, con il nihilismo sovversivo di futuristi, surrealisti e dadaisti. Se il capitalismo borghese aveva condotto la civiltà europea alla rovina, per impadronirsi della sua eredità non restava che compierne paradossalmente l’opera rivolgendola contro di esso. In tal modo, il conservatore Spengler diveniva a sua volta un araldo della rivoluzione: e il suo concetto di ‘Rivoluzione conservatrice‘ finiva con l’andare il tale senso. Il che spiega l’equivoco che fece scorgere in lui un profeta del nazionalsocialismo, mentre dal canto loro i nazisti ne diffidarono e finirono col considerarlo un nemico: anche a causa del suo ostinato rifiuto a collaborare con loro.
Al di là dell’equivoco che lo volle ispiratore ai alcune posizioni hitleriane, Spengler fu considerato, dopo il ’45, un ‘cattivo maestro’ bollato come ‘irrazionalista’ e ‘antiscientifico’, ch’era tacitamente vietato leggere e peggio ancora citare. Oggi, sulle rovine delle beate e ottimistiche certezze storicistiche e dinanzi a un domani caratterizzato dall’esaurirsi di quelle ideologie che egli aveva avversato e combattuto, mentre nuove sintesi tra la cosiddetta ‘ civiltà occidentale’ e altre forme di cultura stanno sorgendo all’orizzonte, lo skyline di Shanghai ci appare più nuovo di quello di Manhattan e la capitale della tecnologia informatica si sposta a Bangalore in India, una rimeditazione delle vecchie pagine di Spengler s’impone come insospettabilmente attuale e fruttuosa.
Oggi, mentre sorgono nuove sintesi tra la «civiltà occidentale» e altre forme di cultura, s’impone una rimeditazione delle vecchie pagine del «cattivo maestro».
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