LIBRO DELLA SETTIMANA: "Nazismo e comunismo" di Alain De Benoist



In questo testo, l'autore prende spunto dalla vivace polemica suscitata sia in Francia sia all'estero dalla pubblicazione del Libro nero del comunismo di Stéphan Courtois, nel 1997, per compiere un esame del regime nazista e comunista così da individuarne gli aspetti peculiari e comuni in virtù dei quali è legittimo e pertinente ritenerli le più importanti incarnazioni storiche del totalitarismo. 

L'intento principale della riflessione di De Benoist - confutare coloro che ritengono a tutt'oggi il comunismo meno pericoloso del nazismo - è politico e non teorico. Questo fine extrateorico condiziona pesantemente l'intera analisi e deve essere tenuto presente da chi legge, soprattutto se sceglie di non raccogliere le provocazioni dell'autore e di evitare polemiche di corto respiro.

L'accesso agli archivi di Mosca, un tempo segreti, ha consentito la stesura di un bilancio delle vittime del comunismo: cento milioni di morti, una cifra addirittura quattro volte maggiore di quella delle vittime del nazionalsocialismo e tale da far affermare che "il bilancio del comunismo costituisce il più colossale caso di carneficina politica della storia". (p. 6) 
In ragione di questi dati, Courtois ha rivendicato la natura criminale del sistema comunista e, soprattutto, la piena validità di una comparazione tra i due regimi contro la quale, invece, si è potuto assistere ad una imponente levata di scudi. 

Coloro che reputano improprio e improponibile un accostamento dei due regimi, si rifanno sovente alla questione della differenza delle loro ispirazioni iniziali, affermando che, mentre il nazismo fu una dottrina dell'odio e i suoi crimini furono non solo prevedibili ma connaturati alla sua stessa essenza, il comunismo sarebbe stato una dottrina di liberazione, di amore per l'umanità e i suoi delitti nient'altro che errori, incidenti, deviazioni. Alain de Benoist ritiene insostenibile una tale argomentazione, poiché comporta un atteggiamento che si ostina a giudicare la storia e quindi anche i regimi politici sulla base delle intenzioni e non, come sarebbe auspicabile, sulla base dei fatti. In secondo luogo, la contrapposizione della dottrina dell'odio del nazismo e l'ideale di emancipazione umana del comunismo è artificiosa, poiché oppone una definizione del comunismo data dai suoi sostenitori ad una definizione del nazismo data dai suoi nemici. 

A coloro che ancora usano queste argomentazioni sfugge che la realizzazione degli ideali che comunismo e nazismo facevano propri implicava in entrambi i casi lo sradicamento di una parte della società: l'utopia della società senza classi non meno dell'utopia della razza pura, esigeva l'eliminazione di individui che si riteneva ostacolassero la realizzazione del progetto. Richiamare la vocazione universalistica del comunismo, la sua pretesa di offrire la felicità all'umanità intera invece che ad una sua parte (il popolo tedesco, per il nazismo), alla luce di quanto detto, non fornisce più un'attenuante sostenibile, dal momento che tale vocazione non servì ad ostacolare il terrore, ma a dargli una legittimazione superiore. 

Alain de Benoist critica anche le ragioni di chi afferma che l'ideale comunista sia stato tradito dal comunismo ufficiale: mentre non si videro mai nazisti criticare l'hitlerismo, il sistema staliniano fece molte vittime comuniste e suscitò molte ribellioni allo stravolgimento delle loro idee da parte del regime. Questo argomento non solo è storicamente infondato, secondo De Benoist, ma semmai serve maggiormente a confermare la natura terroristica del comunismo. Nel sistema sovietico, infatti, la mentalità del complotto sarebbe stata interiorizzata a tal punto che le purghe furono dirette non solo contro la società ma anche contro lo stesso apparato e ciò accadde anche negli altri paesi in cui il comunismo si instaurò. 

Contro la comparabilità dei due regimi è poi richiamata la spaventosa persecuzione organizzata dal Terzo Reich contro gli ebrei: definirla "unica" ha finito per cristallizzarla come una categoria a sé, non confrontabile né paragonabile a qualsiasi altro fenomeno. Se i carnefici non sono comparabili a nessun altro carnefice, lo stesso vale per le loro vittime: in questo caso si dovrebbe sostenere che esistono vite la cui soppressione è più imperdonabile di quella di altre. Questa è un'idea inaccettabile, perché nessun popolo e nessun uomo è moralmente superiore a un altro. 

Le convinzioni criticate da De Benoist hanno prodotto come conseguenza una forte discrepanza di trattamento dei due fenomeni: da una parte il nazismo è stato considerato il regime più criminale del secolo, dall'altra il comunismo è stato visto come un sistema certamente criticabile, ma perfettamente difendibile. Una ragione di questo atteggiamento risiede nell'alleanza, durante la seconda guerra mondiale, tra lo stalinismo e le democrazie occidentali, alleanza da cui il comunismo ha ricavato un credito morale che non ha cessato mai di sfruttare: l'antifascismo, l'egida sotto cui tale alleanza fu realizzata, divenne un indiscutibile strumento di legittimazione per il comunismo e di difesa dell'Urss: contrapporre la democrazia al fascismo permise al sistema comunista di presentarsi come democratico in quanto antifascista. 

Alain de Benoist ritiene, però, che esista una ragione ancora più importante e ben più gravida di conseguenze, ragione che egli introduce attraverso una puntuale riflessione su fenomeno totalitario: i totalitarismi del secolo scorso furono il prodotto dell'atteggiamento mentale di una certa epoca, basato sulla fusione di una visione manichea e messianica con un volontarismo estremo, che si esprimeva nella volontà senza limiti di instaurare una società mai vista in precedenza. I tratti religiosi più evidenti si manifestarono in una visione dualistica del mondo, caratterizzata da una divisione radicale tra "noi" e "loro", tra il bene e il male, tra proletariato e classi sfruttatrici, per il comunismo, e tra ariani ed ebrei per il nazismo: in entrambi i casi il partito rappresentò il principio positivo per antonomasia, depositario dell'ideale della lotta senza quartiere contro il principio negativo, e legittimato da una sorta di necessità storica. Questa rendeva la sua missione conforme al movimento della storia, ovvero alla realizzazione di un'era completamente nuova, priva di antagonismi e contrapposizioni. Tuttavia l'inaugurazione di quella stessa era richiedeva, quasi paradossalmente, l'esasperazione degli antagonismi e delle contrapposizioni: il tema della lotta senza quartiere al male, all'avversario, è figlio della previsione di un fine assoluto, il quale, a sua volta, giustifica il ricorso a qualunque mezzo. La violenza dello stato diventò così una necessità etica, la cui legittimità fu garantita dal comune richiamo ai valori della modernità, della Rivoluzione francese, che per prima ha fatto del massacro la conseguenza razionale dell'enunciazione di un principio politico. 

Tuttavia anche le democrazie occidentali discendono da quell'eredità, intrisa di razionalismo e storicismo (nell'accezione popperiana del termine): proprio per questo, secondo Alain de Benoist, le democrazie occidentali sono incapaci di condannare il comunismo e tuttora vulnerabili di fronte ad un ritorno totalitario. Questo punto è cruciale nella riflessione dell'autore: le società liberali contemporanee non sono di per sé immuni ai germi di un nuovo totalitarismo. Infatti, alla caduta dei sistemi totalitari non corrisponde automaticamente l'affermarsi della democrazia perché la soppressione della diversità degli uomini, delle idee e delle opinioni, nonché la marginalizzazione del dissenso sulla base di un modello unitario omogeneo, si possono ottenere non solo con la violenza ma anche la persuasione. La tradizione che da Tocqueville porta a Orwell induce l'autore a temere una nuova forma di servitù: "Il mercato, la tecnica e la comunicazione affermano oggi, con altri metodi, ciò che gli Stati, le ideologie e gli eserciti affermavano ieri: la legittimità del completo dominio del mondo". (p. 92) Sotto questa prospettiva, anche la difesa dei diritti dell'uomo, di cui le democrazie liberali si fanno garanti, assume, per de Benoist, una forma equivoca: "combattere in nome dei diritti dell'uomo è ancora un identificarsi con l'umanità, col rischio di escludere tutti coloro che contestano la fondatezza di questo riferimento o di questa lotta" (p.92). Quella stessa perversione del principio di unità dei totalitarismi, che consiste nel sopprimere la molteplicità, sulla base di un riferimento politico alla totalità, è, in un certo senso, trasfigurata nella nostra etica dei diritti umani: in ragione di un principio universale di razionalità, si vuole pervenire ad un consenso sulle norme giuridiche escludendo tutto ciò che rappresenta una dissidenza rispetto a quel consenso. 

Manca ancora, a livello sia internazionale sia nazionale, un vero "politeismo di valori", un pluralismo culturale alla cui causa nulla apporta la polemica alimentata da un antifascismo e da un anticomunismo altrettanto postumi. L'evocazione del fantasma di forme totalitarie trascorse, interpretate come radicalmente estranee rispetto all'oggi, ha un evidente aspetto opportunistico: far accettare il liberalismo e i danni del mercato, secondo la gretta logica del male minore. Occorre invece, secondo de Benoist, affinare una nuova capacità d'analisi e di interpretazione, che sia in grado di capire e organizzare i nuovi scenari che la post-modernità ha disegnato: "Non c'è errore peggiore, per un osservatore, dell'ingannarsi sul momento storico che sta vivendo" (p. 102).

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