E. Hopper, pittore ed illustratore nasce in America – Nyack – nel 1882. Studierà al New York institute of art, essendo allievo del noto William Merrit Chase, grande ritrattista e docente che ha determinato l’impatto impressionista nella cultura americana. Concentrandoci su Hopper, teniamo presente che ha lavorato per un gran periodo come pubblicitario per sostenere il pagamento delle spese volte alla sua carriera artistica in riferimento esclusivo alla pittura, spostandosi anche in Europa. Chi conosce l’artista, ha sicuramente presenti i suoi quadri che vanno da scenari urbani a camere da letto, dove ogni contesto si caratterizza per la maggior parte delle volte da una sola persona. I suoi quadri si avvicinano molto a delle inquadrature fotografiche, dove è presente una cura dettagliata degli interni che caraterizzano gli ambienti. Avendo avuto egli come docente Chase, il quale come poco prima accennato, ha influenzato la cultura americana riflettendo in essa l’impatto dell’impressionismo, Hopper ha comprensibilmente osservato e studiato le opere appartenenti a tale corrente, tanto che la minuziosità raffigurativa degli interni si può immaginare derivi dall’influenza trasmessagli dal celebre pittore Degas. Osservando i lavori di Hopper, viene spontaneo chiedersi se la psiche da lui rappresentata, immersa e stravolta dalla solitudine, non sia proprio quella dell’artista stesso! Si può far riferimento ad una malinconia respirata dal personaggio, o semplicemente una malinconia che lo stesso vuole conoscere o affrontare, in solitudine.
E’ come se il soggetto ritratto respirasse ed andasse a fondo di quello che, solo i malinconici posso vedere: ovvero aspetti della vita non visibili agli altri. Una condizione, questa della malinconia, messa a forte giudizio nelle epoche passate, brutalmente etichettata come patologica. A mio avviso è da non dare per scontato che Hopper presenti su tela una solitudine intesa nel suo aspetto negativo. Intendo dire che in queste solitudini dipinte, oltre percepire tristezza, abbandono o delusione, si può scorgere anche l’altro lato: lontananza ed isolamento voluto affinchè emerga l’essenza dell’anima, un’eccellenza intellettuale, sempre in bilico tra tristezza, paura, delirio parziale e genialità. Quanto ho appena detto è riconducibile alla citazione che precede l’inizio del mio articolo. Trovo affascinanti i quadri di Hopper, dove ognuno può ritrovare momenti della propria vita. Chi, non si è ritrovato solo, per una strada, su un letto, al tavolo di un bar, lasciandosi impotentemente o volontariamente, travolgere o lusingare dalla grandezza di cui la propria anima è capace?! Quando ci ritroviamo soli con noi stessi, diamo luogo non necessariamente ad una solitudine. Si potrebbe parlare di confronto con l’anima spesso contaminata reversibilmente dalla razionalità.
Sostanzialmente, prendendo in prestito le parole di un’antinomia novecentesca di Pirandello, intendo questo: “la solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque, l’estraneo siete voi”. Pertanto, a seconda dei pensieri e delle domande che ci portiamo dentro, ciò che vediamo nei quadri di Hopper può esser attribuito a due dimensioni: ad una che vede un significato continuo e collettivo della solitudine, oppure ad una seconda dimensione più vicina ad una interpretazione della solitudine che si diversifica da quella comune – le parole di Pirandello incarnano perfettamente questa ultima.
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