In Siria i reparti dell’esercito lealista, affiancati dalle numerose milizie che hanno scientemente deciso di supportare l’unico governo legittimo, stanno conducendo sempre più vigorosamente la lenta, ma inesorabile, operazione di pulizia della presenza terroristica, sancendo così la definitiva consacrazione del piano strategico, semplice ma funzionale, dello stato maggiore di Damasco: sanare tutte quelle zone d’ombra, adagiate lungo il confine con la criminosa Turchia, che rappresentano i canali linfatici capaci di mantenere in vita quel “tumore” detto Daesh o ISIS.
Operazioni risultate vincenti grazie anche alla sempre più importante opera di coordinamento della Russia, unico stato deciso ad intervenire in un oceano di personaggi e stati parolai.
Nel mentre, in Europa ci si dileggia in folli e sconsiderati sofismi dal marcato e robusto retrogusto d’aria fritta: discorsi vuoti, dietrologie, tentennamenti capaci unicamente di alimentare ulteriormente le esecrabili mattanze dei terroristi di Daesh – nonché di dimostrare quanto e a cosa si sia ridotto il massimo sforzo intellettuale del Vecchio Continente: ad accusare, in tutte le salse possibili, un governo ampiamente sostenuto dalla popolazione locale.
Sanguinose e patetiche danze di morte in cui l’unico partecipante capace di riderne e, soprattutto, trarne vantaggio, siede beatamente ad Ankara: basta una veloce ripulita e i soldi dei terroristi, lordi del sangue del popolo siriano, spingono con decisione la locomotiva turca, garantendole, quegli investimenti in ambito “sociale” che tanto piacciono ai tecnocrati europei. Nonché, verso appetiti, sempre più manifesti, di imperialismo regionale cullati dal nuovo sultano turco.
Ma attualmente in Siria si sta consumando un’altra lotta, più silenziosa ma non per questo meno importante. Pur non volendo assolutamente disprezzare, sminuire o minimizzare il sangue, il sudore e la fatica versata dai soldati siriani impiegati in questa titanica lotta per la salvaguardia e l’integrità della loro patria, la più alta posta a cui un nobile animo umano può ambire, pur non volendo tacere i gravi lutti, le pesanti privazioni e la diffusa insicurezza a cui da troppo tempo è costretto il popolo siriano, è mia intenzione ricordare la guerra di civiltà, vero e proprio scontro ctonio tra i partigiani del più barbarico caos e difensori della libertà, che si sta violentemente abbattendo sulle ricchezze storico culturali di questo sfortunato e martoriato paese.
A questo punto mi si potrà muovere, giustamente o no, non è mio compito definirlo, la seguente obiezione, magari declinandola nelle più disperate maniere:
“Cosa può importarci di quattro pietre sbiancate mentre i boia di Daesh – termine, a mio avviso, intercambiabile con l’ossimoro di “ribelli moderati” – stanno consumando le peggiori atrocità?”
Osservazione lecita, non c’è che dire. Alla quale, tuttavia, è doveroso rispondere a tono. Nel nostro attuale panorama linguistico si sta sviluppando un singolare processo d’evoluzione semantica in cui i termini di “storia” e “memoria” si stanno intrecciando sempre più, quasi a diventare sinonimi perfettamente interscambiabili.
Tuttavia, senza dilungarsi troppo in dissertazioni che potrebbero risultare di sapore indigesto al lettore, storia e memoria non indicano assolutamente la stessa sostanza. La storia, tout court, non è altro che un processo artificiale, e in perenne fieri: costrutto della fervida mente umana, può certamente venir paragonata ad un edificio in perenne costruzione.
Le sue fondamenta, d’altra parte, sono rappresentate dalla scelta che lo storico, architetto del suddetto edificio, fa nel scegliere la memoria che, a sua detta, meglio si presta a questa edificazione. Concretamente, e quindi tralasciando questi sofismi, la memoria altro non è che un vasto e complesso sistema di testimonianze del nostro passato: resti archeologici, testi, statue, reperti, e via discorrendo.
Ed è proprio questo il nodo della situazione: il popolo siriano sta venendo sempre più privato di questa sua memoria nazionale, delle fondamenta sulle quali ricostruire, in un futuro, si spera non troppo lontano, la propria coscienza nazionale, la propria religione civile.
Perché, ricordatevi: un popolo senza storia è più facile da opprimere.
Giuseppe Catterin, Giano Bifronte
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