Ha recitato fino all’ultimo giorno della sua vita, Giorgio Albertazzi. Non si era fatto scappare nemmeno l’ultima stagione al Teatro Ghione di Roma, dove, come in tutti gli ultimi anni, tradizionalmente recitava nella sua versione del Mercante di Venezia, uno dei suoi cavalli di battaglia insieme a tutto il teatro shakesperiano, alle rappresentazioni dantesche, allo storico le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
La sua storia è conosciuta non solo per il profilo artistico, ma anche politico, sebbene questo aspetto sia divenuto “antico” e mai più affrontato direttamente. Albertazzi, prima di diventare il grandissimo che ha incantato le platee italiane e internazionali, è stato volontario nella Repubblica Sociale dopo il 1943. Incarcerato, viene liberato da quel colpo da maestro che fu l’ amnistia Togliatti, organizzata dal segretario del PCI per incamerare quanti più possibili fascisti nei nuovi quadri dell’organizzazione politica comunista italiana.
Inutile dire che, almeno con lui, l’operazione non funzionò. Gli anni successivi Giorgio si dedica anima e corpo al teatro, sua passione istintiva, sanguigna, dimostrata dalla sua laurea in architettura che, però, mai sfrutta veramente e ripone velocemente nel cassetto. Nel 1949 comincia una straordinaria carriera che, giocoforza, ritorna e parte sempre dall’elemento shakesperiano: Troilo e Cressidra il folgorante esordio, diretto da Visconti.
Nel 1964 rappresenta, diretto da Franco Zeffirelli, l’Amleto a Londra, meravigliando la platea. Poi tutto il resto vien da sé, credo sia anche inutile scrivere un elenco di interpretazioni di successo che potrebbero risultare solo banali, quando si parla di uno dei più grandi attori e registi della storia del teatro italiano e mondiale (stilando una classifica improbabile, forse il migliore insieme al grande Totò).
Mi permetto di ricordare, però, l’ incontro da spettatore con Giorgio Albertazzi, avvenuto negli ultimi anni della sua vita, nell’ anno 2009, durante la rappresentazione di Lezioni Americane di Italo Calvino. Proprio al Ghione, il luogo che è stato quasi la sua “casa professionale” nella capitale per circa un decennio. Il tema, almeno nello spettacolo albertazziano, era focalizzato sulla leggerezza della vita (l’opera originale di Calvino, invece, spazia su più aspetti). Tutto raccontato attraverso note esclusivamente autobiografiche, intramezzato da monologhi sull’Inferno di Dante che, avendo avuto la fortuna di ammirare, difficilmente dimenticherò.
Fino a qualche anno fa, sul suo sito ufficiale, era scritto, testualmente o quasi: “Dopo l’8 settembre 1943 decido di entrare nella Repubblica Sociale Italiana. Una scelta che non rinnego e che rivendico. Poi, tutto è finito“. Negli audio e nei video di Albertazzi traspare sempre autenticità sul tema, come durante un’intervista a Rai Storia in cui afferma chiaramente: “Mai pentito. Per me l’Italia era un sogno, volevo lottare per essa”.
Lo ha sempre ribadito. Anche se interviste scritte, specie nell’età ormai avanzatissima, hanno provato ad apostrofare, come al solito, quella scelta come sbagliata. Inevitabile quando si ha a che fare con un gigante del mondo dell’arte che, come spesso accade, si fatica a riconoscere ideologicamente in un’idea di tipo fascista.
Nonostante una lucidità che, per quanto notevole per un novantenne, non poteva essere ai livelli degli anni verdi, Giorgio però, su quello, è sempre rimasto fermo, marmoreo come il suo volto. Come fermo è rimasto nelle sue opinioni riguardanti il ventennio, non rinnegandone mai l’importanza storica, pur in un quadro in cui non sono mancate critiche (come quella all’imperialismo).
Celebre questa sua dichiarazione recente: “Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l’uomo è quella cosa lì. Il peggiore degli animali. E quello che accadde a piazzale Loreto mi ripugna, mi angoscia e mi fa rabbrividire ancora il ricordo. Peserà come una macchia indelebile. E tutti gli altri piazzali Loreto che abbiamo dimenticato e che ci sono ancora oggi, in mondi apparentemente lontani come la Siria, la Libia, l’Iraq.“
Per tutte queste ragioni (e a differenza di altri oscuri personaggi) una mente, ma soprattutto un uomo come Giorgio Albertazzi, ci mancherà eccome. Grazie.
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