Partiamo dalla cosa più semplice: cos’è il TTIP? No, non è un ballo. È la sigla del possibile Trattato Transatlantico sul Commercio e sugli Investimenti, dall’inglese: Transatlantic Trade and Investment Partnership.
Il trattato è attualmente in discussione e non ha una tempistica certa. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, vorrebbe però siglare l’accordo entro i prossimi sei mesi, prima della fine del suo secondo ed ultimo mandato.
Perché è importante informarsi? Perché questo trattato potrebbe rivoluzionare il futuro dell’economia ma soprattutto della qualità della nostra vita. In positivo o in negativo? Cerchiamo di fare luce assieme scoprendone ipotetici vantaggi e rischi.
L’obiettivo di questo trattato è quello di creare la più grande area di libero scambio al mondo, che riguarderebbe circa la metà del PIL mondiale, tra Europa e Stati Uniti.
Questo, secondo le intenzioni, dovrebbe avvenire attraverso l’abbattimento di barriere e tariffe doganali e d appianando regolamenti tecnici e norme, omogeneizzando così i mercati, anche in un’ottica di investimenti reciproci di capitali per favorire commercio e scambi internazionali.
Gli auspici? Un incremento del PIL europeo di circa 120 miliardi e di quello americano di circa 90. Cioè 0,5% del Pil aggregato, almeno secondo uno studio commissionato da Bruxelles dal Centre for Economic Policy Research di Londra.
Secondo invece uno dei più autorevoli economisti mondiali, Alan Winters (dal curriculum troppo lungo per essere ripreso qui), le previsioni più plausibili vedrebbero un incremento di circa lo 0,025%, cioè circa mezzo miliardo in totale, una cifra talmente piccola da far pensare che la discussione del stesso TTIP costi di più.
Volendo tradurre, potremo dire che non è possibile fare alcuna stima, né che effettivamente il PIL possa crescere per effetto di un semplice accordo commerciale.
Anzi, leggendo il pamphlet realizzato dalla commissaria europea competente Malstrom (The top 10 muths about TTIP), totalmente focalizzato sul taglio dei costi e dei prezzi dei beni, si potrebbe addirittura ipotizzare che questo accordo internazionale possa portare addirittura ad un calo del PIL e ad una riduzione ulteriore dell’inflazione.
Ma perché i beni dovrebbero costare effettivamente meno? Secondo le ipotesi, in primo luogo perché vi sarebbe un abbattimento totale dei costi doganali, che oggi, di media, sono al 3% circa.
Un risparmio che sul singolo prodotto potrebbe essere anche sensibile ma, se si considera che gli scambi sono sempre bilaterali, ciò significa che da un lato importatori ed esportatori saranno avvantaggiati, mentre dall’altro lato i produttori e i venditori locali verranno penalizzati, trovandosi in un mercato ancora più competitivo.
Detto questo bisogna certamente focalizzare il ragionamento proprio su questo punto: in questo modo si rincorrono le produzioni di bassa qualità e non quelle a maggior valore aggiunto, più pregiate e particolari per le quali il prezzo di vendita diventa quasi un dettaglio di secondaria importanza.
Ovviamente chi ci rimetterebbe con questo sistema? L’Europa. L’Italia in particolare. Un esempio su tutti? L’Italia dispone di 140 varietà di grano mentre gli Stati Uniti solo di 6. Ma quei 6 potremo comprarli a prezzi molto più bassi evitando di comprare i nostri.
Ma se i vantaggi non risiedono nell’economia, dove sono? Sicuramente nella semplificazione. O almeno questo ne è l’intento. Per semplificare, esistono due strade: tagliare leggi o uniformarle. Eppure anche qui non si comprende bene quale sia la strada, nel senso che si parla di semplificazione, ma la via sembra essereconfusionaria.
La cosa più intelligente sarebbe uniformare le leggi mantenendo gli stessi standard. Il problema è che gli standard sono diversi e per uniformarli spesso ci vorrebbe una complicazione, non una semplificazione, soprattutto per la controparte statunitense che certamente non vuole aumentare i costi per il controllo alimentare.
Un esempio? L’Unione europea prevede controlli per circa 143.000 sostanze chimiche. Gli Stati Uniti solo 6. Venisse tutto uniformato potremo certamente diventare ghiotti di bistecche arricchite con ormoni, vegetali OGM di ogni tipo che certamente comporteranno nuovi morti per allergie, carne clonata o il pesce al cafados, sostanza che lo rende di nuovo “fresco”.
Per ora la commissaria europea getta acqua sul fuoco sentenziando che “non cambierà nulla”. Ma se non cambierà nulla, perché firmarlo? Altro aspetto interessante è che ad oggi molti settori non sono stati uniformati a livello europeo: siamo forse pronti ad imbarcarci in un nuovo salto transatlantico?
Altra questione altrettanto interessante è quella sugli standard produttivi dal punto di vista lavorativo che andranno uniformati anche in questo caso. Ad esempio anche in Europa con tutta probabilità si dovrà arrivare a mettere il pannolone per gli operai della linea produttiva degli stabilimenti di pollame per evitare che perdano inutilmente tempo andando in bagno, come avviene in diversi stabilimenti statunitensi.
C’è da dire però che il loro pollo è molto più pulito del nostro, con un aspetto decisamente migliore: sbiancato con la candeggina. Per ora la commissaria europea getta acqua sul fuoco sentenziando che per i lavoratori “non cambierà nulla”. Ma, nuovamente, se non cambierà nulla, perché firmarlo?
Di sicuro è rischiosissimo l’istituto del cosiddetto ISDS: un tribunale speciale sovranazionale in grado di citare in giudizio i governi che, secondo le multinazionali, danneggino i loro affari, chiedendo immediate azioni o ingenti risarcimenti.
Ne è un esempio quanto avvenuto con Philip Morris che citò in giudizio il Governo australiano per la sua campagna antifumo. Questo certamente costituisce un pericolo per la legittimazione stessa del processo democratico.
Una questione che invece non può certamente preoccupare è l’invasione americana dal punto di vista culturale. Pare non sia rimasto molto altro da colonizzare sotto quell’aspetto.
Riassumendo: sull’argomento c’è molta confusione. Gli scopi del trattato sono: abbassare i prezzi, aumentare gli scambi, diminuire burocrazia e controlli (semplificare). Eppure la commissaria europea assicura che tutti gli standard rimarranno tali, la qualità non cambierà, le nostre imprese ci guadagneranno.
È forse plausibile che gli Stati Uniti stiano facendo tutto questo per aumentare loro la burocrazia, aumentare i controlli (e quindi i costi) e immettere nuove regole solo per uniformarsi a noi e non pagare un misero 3% di tasse reciproco?
O è più probabile che sia l’Europa con le sue specificità, le sue alte qualità, le sue tutele e i suoi diritti a venireattaccata al cuore spostando la partita sul prezzo di vendita, terreno dove non possiamo essere competitivi?
A voi la risposta. Ah, un’ultima domanda, visto che si parla di integrazione di mercati: come vanno gli scambi con la Russia?
(di Riccardo Piccinato)
LINK UFFICIALE: http://www.azioneculturale.eu/2016/05/tutti-i-rischi-del-ttip/
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