Il 19 giugno 2014 Wikileaks pubblicava i documenti segreti del Trade in Services Agreement (TiSA). In pochissimi hanno sentito questo acronimo e quasi nessuno sa cosa sia (anche perché sostanzialmente nessun giornale ne ha dato notizia o ne riporta i progressi) nonostante potrebbe condizionare la vita di miliardi di persone.
Si tratta di un accordo commerciale sulla liberalizzazione dei servizi portato avanti dalla World Trade Organization, figlio di vari processi e vicissitudini tra cui il Gats e il fallimentare Doha Round, comprendente 50 Paesi, di cui 32 europei. I negoziati sono iniziati ufficialmente nel marzo 2013.
Il settore dei servizi rappresenta il 70% del PIL mondiale ed è il maggiore in termini di occupazione, ecco perché il Tisa potrebbe rappresentare un accordo commerciale molto più importante dello stesso TTIP. Che sia un Trattato antipopolare lo si capisce già dalla prima pagina del documento pubblicato da Wikileaks: “desecretare dopo cinque anni dall’entrata in vigore del Tisa o, se non entrerà in vigore, cinque anni dopo la chiusura delle trattative”, forse, per evitare le massicce proteste che causarono appunto il fallimento del Doha Round, meglio mettersi “al riparo dal processo elettorale”, dalla volontà popolare, chiamando in giudizio il nostro Mario Monti.
Inoltre, sul sito della Commissione Europea si legge: “Come tutti gli altri negoziati commerciali, i colloqui relativi al TiSA non si svolgono in pubblico e i documenti sono accessibili solo ai partecipanti” (e questo, ironicamente, sotto la voce “Trasparenza”).
Sanità, istruzione, trasporti, potrebbero essere privatizzati e la possibilità di intervento statale fortementeindebolita, se non vietata. Non è un caso se, in Italia soprattutto, proprio questi servizi vengano aspramente attaccati e criticati dagli eurocrati e, di riflesso, dal governo: per le banche, a livello comunitario, è stato instaurato il bail-in, mentre nel nostro Paese sanità e istruzione pubblica vengono smontati pezzo per pezzo a favore dell’iniziativa privata. In pericolo anche la privacy dei cittadini attraverso il possibile trasferimento di dati da un Paese all’altro.
Gli interessi in gioco sono enormi: parliamo ovviamente di quelli del liberismo più sfrenato, che risponde all’unica libertà per esso congeniale: quella imprenditoriale. Contro tutto ciò che rappresenta una barriera, un ostacolo all’espansione indisciplinata in nome della competitività e della rimozione dei diritti sociali, tramite la globalizzazione, attraverso il “ce lo chiedono i mercati”, e qui in Italia il “ce lo chiede l’Europa”.
In prima linea per la conclusione del Trattato troviamo ilCoalition of Services Industries (CSI), che annovera fra i propri membri Facebook, Google, IBM, JP Morgan e Walmart giusto per citarne alcuni. In un documento del dicembre 2013 intitolato “Perché l’America ha bisogno di un nuovo accordo commerciale sui servizi” leggiamo: “nel mondo le imprese americane non possono competere lealmente a causa delle barriere in entrata, di trattamenti discriminatori e per un fallimento generale nel mantenere regole internazionali allineate coi nuovi sviluppi e le realtà delle moderne pratiche di business”.
Considerando che gli Stati Uniti sono i leader mondiali in quanto a servizi esportati (oltre 700 miliardi di dollari nel 2014) e che le affiliate estere delle multinazionali a stelle e strisce hanno generato 1000 miliardi di dollari nello stesso anno, si capisce facilmente come mai le pressioni provengano da un’organizzazione che rappresenta alcune fra le più importanti multinazionali americane e del mondo.
Sul sito del CSI, ma anche su quello della Camera di Commercio statunitense, si riportano solo i possibili vantaggi per gli Usa, il che potrebbe anche essere logico, ma viene da chiedersi: quali sarebbero i vantaggi per noi comuni mortali? Forse la possibilità di risparmiare su della carne scadente imbottita di ormoni; o quella, per lo Stato, di guadagnare una tantum dalla privatizzazione, (salvo poi i profitti rimanere nelle casse della multinazionale).
Non ci stupiremmo di assistere ad una crescita dei prezzi per guadagnare anche su beni essenziali. D’altronde il Presidente della Nestlé ce lo ha ricordato: “Chi pensa che l’acqua sia un bene pubblico e quindi ogni persona del pianeta ne abbia diritto è un’estremista. Io penso che sia meglio dare all’acqua un valore di mercato, così sapremo tutti che ha un prezzo”.
A chi crede che comunque, in qualche modo, i governi faranno gli interessi dei cittadini, Lenin risponderebbe che “la potenza del capitale è tutto, il Parlamento e le elezioni sono un gioco da marionette, di pupazzi”. In questo caso un gioco pericoloso, ai danni della vita umana e del pianeta, in favore dell’accrescimento smisurato del capitalismo stesso.
L’economista premio Nobel, Joseph E. Stiglitz, in un articolo sul New York Times intitolato “Dal lato sbagliato della Globalizzazione” ha commentato: “Oggi lo scopo degli accordi commerciali è diverso. Le tariffe nel mondo sono già basse. L’attenzione si è spostata alle barriere non tariffarie, e la più importante di queste – per gli interessi che spingono verso l’accordo – è la regolamentazione. Le enormi multinazionali lamentano che insensate regolamentazioni rendono più costoso fare business. Ma la maggior parte delle regolamentazioni, anche fossero imperfette, sono lì per una ragione: per proteggere i lavoratori, i consumatori, l’economia e l’ambiente. […] Qualcuno potrebbe pensare, ovviamente, che l’accordo sulle norme sia un potenziamento delle norme attuali verso standard più elevati, ovunque. Ma quando le corporation richiedono un accordo, quello che realmente intendono è una gara verso il basso”.
(di Luca Bontempi)
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