Il Def di Renzi: dietro la propaganda avanti tutta con l’austerità!


E’ possibile che la “luna di miele” con il governo Renzi duri ancora un po’ come successe persino per Monti e per il precedente governo Letta. E certo l’esibizione di velocità e decisionismo, la comunicazione spettacolarizzata di Renzi ha una particolare efficacia in un paese in cui è quasi inesistente il conflitto sociale organizzato e che anche per questo continua a cercare l’uomo dei miracoli cui affidarsi. Renzi ha per altro inaugurato il proprio mandato con alcune scelte di un qualche impatto per i settori sociali che hanno pagato in maniera particolarmente dura la crisi: è così per gli 80 euro mensili promessi ai lavoratori dipendenti sotto i 25.000 euro lordi annui, per l’aumento della tassazione delle rendite, per il tetto ai megastipendi dei manager pubblici. Provvedimenti – o meglio annunci – criticabili per la loro parzialità, a partire dall’esclusione inaccettabile dei pensionati come di tanto lavoro autonomo o falsamente autonomo dai benefici fiscali, ma che a fronte della condizione di disagio sociale fortissimo, hanno rappresentato elementi di qualche novità e costruzione di consenso. Le scelte almeno parzialmente condivisibili però finiscono tutte (ma proprio tutte) qui, e tanto più con la presentazione del DEF emerge la complessiva e totale continuità con le politiche di austerità e neoliberiste dei governi precedenti, che anzi vengono rilanciate con maggior forza. Per questo demistificare le operazioni di propaganda che Renzi sta facendo e che continuerà a fare, è un obiettivo centrale per far crescere la stessa disponibilità all’avvio di un nuovo ciclo di mobilitazioni.

Il DEF, i vincoli europei, le previsioni macroeconomiche.


Renzi si è presentato come quello che avrebbe “sbattuto i pugni” in Europa sull’austerità. Nella conferenza stampa di presentazione dei primi provvedimenti ha poi detto che avrebbe usato la differenza tra il deficit previsto al 2,6% del Pil e il tetto del 3%. In questo modo si sarebbero reperiti più di 6 miliardi, a copertura dello stesso intervento sull’Irpef. Renzi, invece nella prima riunione europea ha dichiarato che il “Fiscal Compact è un impegno che il nostro paese ha preso e che confermiamo” con l’inserimento dei relativi parametri nel DEF, e non ha affatto usato la differenza tra il 2,6% e il 3%. Gli obiettivi sul deficit sono del 2,6% nel 2014, dell’1,8% nel 2015, dello 0,9% nel 2016.
Il tutto ha una logica. Se si rispetta il Fiscal Compact non esiste il margine tra il 2,6% e il 3%. Il vincolo del 3% fissato da Maastricht è stato infatti trasformato dal Fiscal Compact nel vincolo al pareggio di bilancio “strutturale” intendendo, con questa espressione, il deficit al netto della cosiddetta componente ciclica e dei provvedimenti una tantum. Il nuovo parametro si considera rispettato se si sta entro il tetto massimo di deficit strutturale dello 0,5% sul Pil. La stessa introduzione del concetto di indebitamento strutturale peggiora il quadro conferendo alla Commissione un potere discrezionale di valutazione di cosa si possa considerare ciclico, e di definizione per ogni paese di obiettivi diversi a seconda di una serie di parametri. Il DEF prevede al 2016 il pareggio di bilancio strutturale.

Intanto il rispetto del Fiscal Compact significa che i 6 miliardi non ci sono e vanno presi altrove.

Sempre per quel che riguarda i vincoli europei e il rapporto tra debito e Pil, il DEF ne prevede una crescita fino al 2015, tanto al netto quanto al lordo delle quote che l’Italia sta versando – a partire dal governo Monti – al Fondo Salva Stati, quote che devono raggiungere la cifra complessiva di 125 miliardi pagati in rate annuali. Il rapporto debito/pil comincia a diminuire invece seccamente dal 2016. Al 2014 è previsto al 134,9%, nel 2015 al 133,3%, nel 2016 al 129,8%, nel 2017 al 125,1% e via calando. Le previsioni sono in sostanza che dal 2016 e poi in tutti gli anni successivi, l’Italia sarà in grado di rispettare la regola del debito del Fiscal Compact che entra in vigore a partire da quell’anno, cioè la riduzione annua di 1/20 della quota eccedente il 60% del rapporto tra debito e Pil.

Perché questo avvenga il DEF si dà l’obiettivo di una crescita dell’avanzo primario, cioè il saldo tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi, dal 2,6% nel 2014 al 3,3% nel 2015, al 4,2% nel 2016, al 4,6% nel 2017, fino al 5% nel 2018, cioè dai 41 miliardi attuali a 90 miliardi del 2018. Ma in tutto questo, il Pil dovrebbe crescere dello 0,8% nel 2014, dell’1,3% nel 2015, e poi dell’1,7% in media per i 3 anni successivi, trainato dai 10 miliardi di riduzione delle tasse.
Il Def Renzi-Padoan contiene previsioni totalmente non credibili, con una crescita del Pil nel quadriennio 2014-2018 superiore a quella degli anni pre-crisi, mentre continuano le politiche di austerità per il totale rispetto dei vincoli del Fiscal Compact.

Spending Review, privatizzazioni, lavoro.

Ovviamente la parte del leone nel rispetto dei vincoli è affidata agli introiti provenienti dalla spending review e dalle privatizzazioni. Dileguatosi l’utilizzo dello scarto tra il 2,6 e il 3% del deficit, al taglio della spesa è affidata la maggior parte della stessa copertura degli 80 euro in busta paga per il 2014. I “risparmi” sono previsti per 4,5 miliardi nel 2014, 17 nel 2016, 32 nel 2017 appena inferiori al documento presentato da Cottarelli. In attesa che venga definita fino in fondo la selezione delle misure con cui si concretizzerà il piano Cottarelli, è necessario ricordare anche in questo caso che se i riflettori mediatici vengono concentrati sul (limitato) taglio ai mega stipendi dei manager, non è da questa voce che sono previsti la maggior parte dei “risparmi”(0,5 miliardi). Il piano Cottarelli prevede invece al 2016 oltre ai 7 miliardi di risparmi sull’acquisto di beni e servizi la cui attuazione indolore è tutta da verificare, altri 2 miliardi di tagli ai comuni (0,5 nel 2015), 2 miliardi alle partecipate locali (0,1 nel 2014, 1,0 nel 2015), 1,5 miliardi al trasporto ferroviario (0,3 nel 2014, 0,8 nel 2015), 2 miliardi di tagli ulteriori alla sanità (0,3 nel 2014, 0,8 nel 2015), 1 miliardo per l’allineamento della pensione anticipata delle donne, 3 miliardi per il taglio di 85.000 dipendenti pubblici, nuove misure per accelerare la liquidazione o dismissione delle aziende pubbliche locali.

Sul pubblico impiego, se anche fossero vere le smentite circa un blocco al 2020 della contrattazione collettiva e questo fosse “limitato” al 2017 (questione demandata alla legge di stabilità), siamo di fronte ad un attacco pluriennale devastante: il contratto bloccato dal 2009, nessuna reale stabilizzazione dei precari, blocco del turn-over con una riduzione di addetti che ha portato il nostro paese ai minimi termini in Europa e che non rappresenta altro che un attacco all’occupazione e a diritti essenziali: dalla scuola alla sanità ai servizi territoriali.
Sul versante delle privatizzazioni, Renzi aumenta le stesse poste previste dal governo Letta. Dalla previsioni di privatizzazioni per un valore pari allo 0,5% del Pil si passa allo 0,7% del Pil per il quadriennio 2014-2017. In sostanza da un obiettivo di 32 miliardi di privatizzazioni si passa ad un obiettivo di 46 miliardi al 2017. Al piano Letta di privatizzazioni di Poste, Eni, Tag, Stm, Fincantieri.. se ne aggiungeranno di nuove, mentre il DEF mette in risalto in particolare la necessità di accelerare la dismissione delle partecipate locali anche attraverso la “riforma” del Testo Unico sugli Enti Locali. Non solo non si trae nessuna conseguenza dal bilancio totalmente fallimentare delle privatizzazioni degli ultimi 25 anni, del depauperamento dell’apparato produttivo che hanno causato e dell’aumento della dipendenza del paese, dei profitti per pochi a danno dei molti, ma si interviene su settori indispensabili per il rilancio di una politica industriale, a partire dall’energia e dai trasporti e si attacca nuovamente la volontà espressa dalla maggioranza degli italiani con il referendum del 2011.


In realtà nell’ulteriore indebolimento dell’apparato produttivo del paese promesso dalle privatizzazioni, al centro della politica del governo non c’è altro che il decreto-lavoro. E’ all’estensione della “acausalità” del contratto a termine e all’eliminazione dell’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti, alla definitiva precarizzazione del lavoro che il governo attribuisce il compito di rilanciare la “competitività” del paese. E’ il lavoro povero e senza diritti quello su cui si punta. Ma conta qualcosa il lavoro per Renzi? Che abbia diritti e dignità, certamente no, perché altrimenti non avrebbe approvato il decreto-lavoro. Ed in realtà neppure che ci sia un qualche lavoro. Non pare essere un problema per Renzi che le stesse previsioni ottimistiche del suo DEF ipotizzino una disoccupazione sostanzialmente stabile: all’11,6% nel 2017. Ce n’è molto più che abbastanza per avviare un percorso di lotte vero. E se ognuno e ognuna di noi è chiamato a fare la sua parte, ci vorrebbe un sindacato che non aspetta di essere distrutto da Renzi mentre rimpiange la concertazione.

LINK ALLEGATI: 

http://download.repubblica.it/pdf/2014/economia/cottarelli.pdf (PIANO COTTARELLI, REVISIONE DELLA SPESA PUBBLICA)
                                                           
                                                                 VIS SAPIENTIA

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