ACCENNI DALLA PSICHIATRIA COLONIALE ALLA PSICHIATRIA MODERNA:



Dopo aver svolto numerose ricerche sulle psicopatologie effettive e la confusione che spesso si è soliti fare rispetto la follia con ciò che invece è caratterizzante una data cultura la quale noi etichettiamo come “folle” semplicemente perchè differisce per credenze ed usanze, colgo l'occasione per scrivere un breve articolo inerente all'etnopsichiatria, branca dell'antropologia culturale. Per comprendere tale disciplina nello stato di avanzamento attuale è necessario conoscerne le basi epistemologiche.


A tal proposito citiamo George Devereux il quale ha dato un apporto letteralmente significante allo sviluppo dell'etnopsichiatria. Devereux sosteneva che la metodologia adottata dall'osservatore, nonché etnologo, modificava le caratteristiche dell'evento osservato. Egli faceva comprendere questo suo concetto parlando della natura corpuscolare o ondulatoria della luce, nonché la conseguenza della metodologia di osservazione adottata: le procedure di osservazione modificavano dunque le peculiarità della situazione esaminata. Devereux apponeva pertanto il problema di come governare (in quanto non era possibile eliminare), la condizione di perturbazione introdotta dalla soggettività dell'osservatore ed indagare il fatto psicopatologico. Data la sua considerazione, egli comprendeva la necessità di un contatto psicoanalitico nell'interpretazione del comportamento di gruppi ed individui; l'osservatore doveva quindi adottare, solo in momenti successivi, un approccio psicologico ed etnologico per attuare una esauriente comprensione. Approccio, questo, nominato “etnopsicanalisi complementarista”.

Per l'autore ciò che rendeva avverabile lo sviluppo di una teoria, consisteva dunque nel ricorrere a differenti discipline in momenti susseguenti. Da quanto appena detto, si evince come Devereux concentrava la sua attenzione sulla metodologia e sull'inconscio, mentre Fanon era interessato alle conseguenze della situazione coloniale. Fanon quando aveva solo 27 anni analizzò le relazioni tra bianchi, relazioni tra coloni e colonizzati; egli durante i i suoi studi disse le seguenti parole: “in certi periodi di calma l'individuo colonizzato riconosce francamente ciò che di positivo c'è nell'azione del dominatore. Ma questa buona fede viene immediatamente ripresa e trasformata in giustificazione dell'occupazione. Quando l'indigeno, dopo uno sforzo in direzione della verità dice: “questa è una cosa buona ve lo dico perché lo penso”, il colonizzatore trasforma questa affermazione traducendola in tal modo “non partite , come faremmo senza di voi”? Questa sua minuziosa osservazione ha designato una vera e propria incomunicabilità strutturale fra chi è colonizzato e chi colonizza. Dunque notiamo il rivelarsi di una vera e propria violenza psichica del colonialismo.


Fanon cercò di far capire, rispetto l'ambito medico, che tra medici coloniali e pazienti colonizzati non vi poteva essere alcun tipo di relazione in quanto i primi avevano volontà di umiliazione nei confronti dei secondi. Riprendendo il punto di vista di Devereux, facciamo riferimento ad una sua esposizione inerente allo “sciamano”. Egli esitava ad attribuire a questo ultimo un valido ruolo terapeutico per due ragioni: 

1. mancanza di una teoria scientifica del transfert e controtransfert; 

2. il grado di sofferenza psichica dello sciamano stesso (non percepita come una malattia dalla comunità, ma al contempo tale agli occhi dell'etnopsichiatria e psichiatria). 


Lo studioso mostrava quindi una certa diffidenza verso lo sciamanesimo presente nella popolazione dei Moi Sedang, gruppo etnico oggetto di studio per Devereux. Dopo aver ampiamente descritto il punto di vista di Devereux, citiamo lo studioso Henry B. Murphy in quanto il suo percorso è stato analogo a quello di Devereux. Murphy, di origine scozzese, è stato un ufficiale medico dell'esercito inglese. Egli dopo aver frequentato campi e gruppi differenti, aveva appurato che vi erano delle forti differenze nella forma e nella distribuzione dei disturbi psichici. Riguardo questa sua esperienza in diversi campi e gruppi affermò quanto segue: “i miei professori di Clinica non mi avevano detto nulla rispetto a queste variazioni, e quando cercai di saperne di più scoprii che ne era stato scritto ben poco. Ho cercato quindi di lavorare in luoghi dove fosse possibile studiare questi fenomeni in modo sistematico, e questo è stato fin da allora il mio interesse principale”. 


Partendo da tale assunto, Murphy iniziò a studiare psichiatria dirigendo in seguito il Centro di salute mentale per studenti a Singapore. Rispetto ciò che aveva acquisito in merito alla disciplina, egli sosteneva che la psichiatria avesse il compito di porre in attenzione alla società i bisogni di coloro che soffrono di disturbi mentali o di chi è esposto al rischio di soffrirne. Nell'epoca in cui è nata la psichiatria moderna, si affermava che se lo psichiatra avesse ignorato la lingua del paziente, tale atteggiamento sarebbe servito a non distrarlo da implicazioni emotive. 

Dopo aver effettuato diversi studi all'interno del manicomio, diversi studiosi, tra i quali anche Krepelin, fecero una distinzione delle malattie mentali: 

· demenza precoce
· paranoia 
· psicosi maniaco depressiva 

Si viveva dunque una contraddizione tra la pretesa della scienza dell'epoca di poter cogliere la vera natura di tutti i fenomeni, ed i limiti interpretativi di cui la scienza davvero disponeva. Questa contraddizione derivava dal fatto che le conoscenze dell'epoca non erano ancora sufficienti per dare determinate spiegazioni.


                                                             DANIELA BRUNI

                                                 (testo protetto da copyright)

Fonti:

-Beneduce R. “Breve dizionario di Etnopsichiatria” 2008, Ed. Carocci.
-Ripensare alla malattia - dall'etnomedicina all'antropologia medica e alla
psichiatria culturale” 2004, Haward Medical school, ARGO.
-Pizza G. “Antropologia medica – saperi pratiche e politiche del corpo” 2005,
Ed. Carocci.
-Bastide R. “sogno, trance e follia” 1976, Ed. Jaca book.

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