Tra il 1303 e il 1304, contemporaneamente alla stesura del Convivio, Dante inizia a scrivere il De vulgari eloquentia, un trattato sulla lingua volgare (scritto in latino). L’opera passa in rassegna le capacità espressive della lingua “naturale” dell’autore e le forme retoriche (metrica e stile) più adatte al suo utilizzo. Dei quattro libri previsti però, il poeta non terminò neppure il secondo.
Il primo libro tende a dimostrare la nobiltà del volgare illustre, lingua considerata superiore al latino in quanto lingua naturale e non artificiale, al contrario di quanto affermato nel Convivio. A dimostrazione di questa tesi, Dante tenta un’analisi storica della formazione delle lingue ponendo l’origine delle stesse nella volontà divina e in particolare nell’episodio biblico della torre di Babele. In seguito si concentra su tre lingue, imparentate tra loro, già portatrici di una tradizione letteraria notevole: la lingua d’oc, la lingua d’oil e la lingua del sì. La teoria proposta da Dante è che il compromesso tra i parlanti dei tre idiomi sia alla base della nascita del latino, considerata una lingua razionale e convenzionale, nata con il preciso scopo di favorire la comprensione reciproca tra gli intellettuali di diversa provenienza. Dopo aver esaminato anche le tre rispettive letterature, l’opera passa in rassegna quattordici varietà di volgare italiano, offrendo un primo esempio di classificazione geografica e linguistica. Bisogna precisare che nessun dialetto tra quelli analizzati (neppure il toscano) è assunto come modello da Dante, mentre ognuno di essi, opportunamente rifinito, potrebbe elevarsi a lingua di cultura: è infatti errato sostenere che il poeta immaginasse la lingua “italiana” come una lingua formata dalle componenti migliori dei vari dialetti.
Successivamente il De Vulgari Eloquentia presenta alcuni modelli di stile che fissano un primo canone poetico, linguistico e letterario (in cui inserisce anche se stesso) che prende le mosse dai provenzali, include i poeti siciliani e approda a Guinizzelli, Cavalcanti e Cino da Pistoia (escludendo Guittone d’Arezzo e i siculo-toscani). Presentando le quattro caratteristiche fondamentali del volgare, inoltre, l’autore intreccia la riflessione linguistica con quella politica: esso è illustre, poiché capace di dare lustro a chi ne fa uso; cardinale, in quanto fungerebbe da cardine per tutti i volgari d’Italia; regale, perché se in Italia vi fosse un re e una reggia, quella sarebbe la sua dimora naturale; curiale, poiché mancando in Italia una vera corte, risponde alla “curia” degli scrittori più illustri.
Il secondo libro definisce i possibili usi metrici, retorici e tematici del volgare illustre. Dante sostiene che esso debba essere utilizzato soltanto dagli autori di elevata cultura e limitatamente ai temi più nobili: amore, politica e morale. La forma metrica più degna è quella più elevata, lacanzone, con l’utilizzo del verso più nobile, l’endecasillabo (alternato al settenario). Per quanto riguarda il lessico invece, il volgare dovrebbe evitare termini bassi e quotidiani (un divieto che sarà poi infranto proprio da Dante nella Commedia). In conclusione del secondo libro sono analizzati gli elementi costitutivi della canzone, il metro, il ritmo, il verso, la strofa, ma il trattato si interrompe bruscamente.
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