La narrazione predominante (e sbagliata) della crisi


Dire oggi che la spesa pubblica non sia un problema è peggio che bestemmiare in chiesa, invasi come siamo da notizie relative a “spese pazze” dei nostri politici e governanti o di dipendenti pubblici che timbrano il cartellino per poi svolgere funzioni lontane dal posto di lavoro. Tutti episodi spiacevoli e vergognosi, per carità.
Eppure, fu Vítor Constâncio, vice presidente della Bce, in una conferenza sulla crisi nella zona euro presso la Banca di Grecia nel maggio di 3 anni fa, a riportare l’attenzione del discorso sul settore privato, piuttosto che su quello pubblico. Discorso facilmente consultabile online.
Mentre il debito pubblico italiano diminuiva dell’8,6% nel periodo 1999/2007, quello privato aumentava del 71,2%, e Vítor Constâncio disse chiaramente il perché: “L’esposizione delle banche dei paesi del centro verso i paesi della periferia è più che quintuplicata tra l’introduzione dell’euro e l’inizio della crisi finanziaria. L’esplosione di questi afflussi di capitale si è distribuita in maniera disomogenea tra i paesi periferici, ma li ha influenzati tutti, e contenerne gli effetti è risultato estremamente difficile. Le regole europee dei liberi movimenti di capitale, l’obiettivo di creare un campo di gioco comune per differenti settori bancari, e la fiducia nella supposta autoregolamentazione dei mercati finanziari, hanno tutti cospirato nel rendere molto difficile qualsiasi forma di contenimento del fenomeno”.
L’euro ha avuto quindi un ruolo centrale nel generare enormi afflussi di capitali dai Paesi core alla periferia, grazie alla credibilità che si era diffusa fra i membri dell’eurozona, e all’impossibilità per i creditori di ricevere indietro moneta svalutata, dato il sistema di cambi fissi cui avevamo aderito. Dopotutto un euro tedesco era uguale ad un euro greco, per intenderci.
E poi c’è la disfatta di quella leggera cosuccia tanto cara ai liberisti che è l’autoregolamentazione del mercato. E si è visto! Soprattutto in Germania, liberisti con i soldi degli altri. Coi propri si sono preoccupati di salvare subito le loro banche, per poi fare a noi la lezioncina sugli aiuti di Stato quando eravamo in difficoltà. Ma si sa, in Europa siam tutti uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri.
Fallimento del mercato finanziario, ma non dimentichiamoci di quello dei beni; infatti l’enorme mercato interno su cui potevamo contare in caso di crisi provenienti dall’esterno, è venuto meno, dal momento che, basandosi solo sulla compressione salariale per poter esportare a prezzi inferiori dei competitor, abbiamo distrutto la domanda interna europea. E qui sorge spontanea una domanda: che senso ha incaponirsi sull’Unione, se gli unici motivi per cui poteva aver senso un’unione monetaria sono mancati o hanno contribuito al peggioramento della crisi stessa? Domanda retorica, ma andiamo oltre.
Con la crisi del 2008, l’aumento del debito pubblico, citando ancora Vítor Constancio, “deriva dal collasso delle entrate fiscali e dalle spese sociali, che sono aumentate durante la recessione quando sono stati attivati gli stabilizzatori automatici”, dunque un aumento fisiologico generalizzato, per finanziare strumenti atti ad evitare in parte il disastro sociale ed economico. Poi, chi poteva ha svalutato la moneta ed è tornato competitivo sul mercato, chi non poteva, come noi, si è visto imporre misure di austerity e sappiamo come è finita.
Quindi, perché ancora oggi vengono richiesti tagli ad ogni settore pubblico, dalla sanità alle pensioni, quando i dati ci dicono che la spesa pubblica italiana è stata, in media, perfettamente in linea con quella dell’eurozona a 12 Paesi dal 1999 al 2012, e una fonte illustre come la Bce non la considera uno dei principali driver della crisi che ci attanaglia da 8 anni? O addirittura si invocano tagli per crescere, come sparare ai clienti per aumentare le vendite. (Forse chi li invoca ha un’impresa di pompe funebri).
Non c’è dubbio che le risorse possano essere utilizzate in maniera più efficiente, d’altronde si può sempre migliorare, ma questo continuo abuso di informazioni, se non distorte comunque poco utili al dibattito, non fa altro che affossare il Paese nella sterile logica del “se sò magnati tutto” e dell’odio sociale verso politici, pensionati, dipendenti pubblici e via discorrendo. In un momento di ira verso lo Stato-ladro, il commerciante ignora che lo stipendio del dipendente pubblico, anche quello meno diligente, non viene sotterrato in giardino e dimenticato per sempre, ma viene speso nei suoi prodotti ed è quindi per lui fonte di reddito.
Dunque un aumento della spesa pubblica risolverebbe i problemi? Rimanendo nell’eurozona no. Anzi, paradossalmente li aggraverebbe. Oltre all’impossibilità di sforare il limite del rapporto deficit/Pil del 3%, cosa che peraltro fanno o hanno fatto tutti i membri, mentre noi per essere come al solito più realisti del re lo abbiamo fissato a zero, un aumento della spesa pensionistica, per esempio, porterebbe i pensionati ad acquistare prodotti importati, meno costosi di quelli nazionali, proprio per gli squilibri che la moneta unica ha creato. Bella la moneta forte, solo che i prodotti importati non sono, per definizione, prodotti da noi. Con tutto quello che ne consegue.
Bisogna riscontrare che, rebus sic stantibus, un miglioramento della situazione è tecnicamente impossibile se non prima attraverso il ritorno ad un sistema di cambi flessibili; forse per qualcuno ci vorrebbe l’evergreen “più Europa”, io propendo maggiormente per un TSO.

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