Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, afferma che: “Non mi piace la vostra giustizia fredda, e nell’occhio dei vostri giudici riduce sempre per me il boia, con la sua spada gelida. Dite, dove si trova la giustizia che è amore ed ha occhi per vedere? Inventatemi dunque l’amore, che porta con se tutte le pene ma anche tutte le colpe”. La discussione sul significato della pena e del conseguente ruolo della giustizia è di grande attualità. Recenti fatti di cronaca, come l’esecuzione choc in Oklahoma, dove il condannato è morto dopo una lunga e straziante agonia o come un’altra condanna capitale in Texas sospesa poco prima del suo compimento, hanno risvegliato il perenne dibattito su tale argomento, mettendo in discussione i pilastri della giustizia punitiva ,considerati capisaldi fino ad oggi.
La coscienza civile oscilla fra la soddisfazione emotiva, la punizione, la fiducia nell’efficacia di sanzioni il più possibili dure per prevenire crimini futuri e il riconoscimento della necessità di un aiuto sociale per chi venga punito. La definizione della natura della pena oscilla dialetticamente, nei secoli di storia del diritto e dell’esecuzione penale, fra due poli: quello della concezione della pena come retributiva , che trova il suo fondamento più antico nella Legge del taglione, espressa nell’Antico testamento e che ha come scopo quello di restituire l’ordine sociale e quello della concezione della pena come preventiva, il cui fine non è esclusivamente il castigo, ma suo scopo è il recupero del reo e il suo reinserimento nella vita sociale.
La pena, in tale ottica, non è considerata in una dimensione puramente vendicativa. “Da mille secoli gli uomini si puniscono vicendevolmente e da millenni si domandano perché lo facciano”. Come ha sostenuto Eugen Wiesnet la storia dell’interrogativo sul “perchè” della pena è lunga e multiforme. Il termine Strafe (pena) affiora nella lingua tedesca solo dopo il 1200 d.C. mentre, per secoli è stata utilizzata l’espressione pein derivante dal greco. Da un punto di vista linguistico è altrettanto interessante notare l’evoluzione da rachen ,ovvero vendicare, a recht, ovvero diritto.
Dando un ulteriore sguardo alla storia, è alla fine del sedicesimo secolo che la pena detentiva diviene legittima per la prima volta in senso criminal-pedagogico nell’ambito dei nuovi penitenziari di Amsterdam. Alla fine del diciottesimo secolo anche la Germania possiede circa sessanta istituti di questo tipo. In essi tuttavia non vi è traccia della consapevolezza del bisogno di umanizzazione della pena né tantomeno di rieducazione del reo, come invece si era proposte le autorità dell’epoca in apparenza desiderose di distaccarsi dal cruento diritto penale del medioevo che aveva caratterizzato le popolazioni germaniche barbariche con duelli ordalie e pene capitali sino ad allora.
Nuovo impulso in tal senso proviene dai Quaccheri americani che con i loro penitenziari a celle singole intendevano condurre senza uso della forza il detenuto alla riflessione ad all’esame della propria vita, delle proprie colpe, mediante la solitudine e la segregazione cellulare. Il diffuso sopraggiungere di psicosi da reclusione per causa del totale isolamento fa si che l’impostazione originaria venga allentata.
L’idea rieducativa che lentamente stava emergendo comunque non riesce ad essere importata nel nostro continente anche perché si sviluppa la filosofia penale ,ben presto dominante, dell’idealismo tedesco con il suo modello di giustizia retributiva che ha in Kant ed Hegel i suoi massimi interpreti. In particolare Kant nella Metafisica dei costumi sostiene la necessità che “ciascuno subisca quel che meritino le sue azioni..”. Tale modello domina la prassi penalistica tedesca fino a gran parte del nostro stesso secolo, influenzando molti altri paesi. Dopo la seconda guerra mondiale vi è un mutamento sostanziale.
Alla luce di quanto accaduto avviene un profondo e radicale cambiamento della concezione dell’uomo, della sua importanza in quanto essere umano e la necessità di proteggere la sua dignità innata. In tal senso si sono mosse le legislazioni dei vari paesi europei dopo Norimberga, che portano a considerare il significato di pena in maniera differente. Punire equivale senz’altro ad affermare il diritto, secondo la nota equazione hegeliana per cui il delitto nega il diritto, la pena il delitto, la pena afferma il diritto.
Per comprendere a pieno il ruolo della pena oggi, in particolare, nel nostro ordinamento giuridico, occorre prendere in considerazione il dettato costituzionale, in particolare l’articolo 27, comma 3°,della Costituzione italiana , il quale sancisce che :“ le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Per quanto nel dibattito in assemblea costituente si manifestò la precisa volontà di ricercare una formula che non implicasse alcuna presa di posizione in favore dell’una o dell’altra concezione di pena, quest’ultima sembra presentare natura “retributivo- generalpreventiva”, conservando “le note garantiste della retribuzione, essendo fissata in proposizione alla gravità del reato, ma rispondendo anche alle eventuali esigenze specialpreventivo-risocializzative del soggetto”, in funzione delle quali va determinata la pena concretamente applicabile.
Vassalli ritiene che la pena nella sua essenza abbia natura “retributiva”, ma che essa, storicamente, sarebbe suscettibile di essere inflitta “in vista di finalità diverse”. Di qui la triplice funzione della pena; satisfattoria, generalpreventiva e specialpreventiva. In base alla formula dell’articolo 27 della Costituzione italiana, è stato possibile affermare che nell’esecuzione della pena detentiva deve essere assicurato il rispetto della persona umana o il rispetto della personalità, della dignità del reo.
L’Italia è stata condannata più volte dalla Corte Europea per la piaga del sovraffollamento carcerario, questione che è stata affrontata con indifferenza dello Stato, aspetto che ha contribuito a sanzionare ulteriormente il nostro paese. Sovraffollamento considerato dalla corte come rientrante nei “trattamenti inumani e degradanti”. Tale problema rappresenta una questione centrale per verificare se e come venga tutelata la dignità dei detenuti, in quanto essere umani.
Risulta difficile pensare che il detenuto possa sviluppare la propria personalità in carcere dato il contesto già fortemente “spersonalizzante” per il fatto che non può autogestire il proprio corpo, il proprio tempo e la propria psiche. Per risolvere il problema sarebbe utile far ricorso a misure alternative nel corso dell’esecuzione della pena che ha dato risultati soddisfacenti come dimostrano le percentuali di recidiva assai più alta per i detenuti che non ne hanno usufruito (68% conto il 19%).
In oltre, bisogna tener conto che la popolazione carceraria risulta essere composta in prevalenza da stranieri, ovvero 24.954, da tossicodipendenti, che costituiscono il 30% dei detenuti e quelli in attesa di giudizio, che risultano essere 28.692 su 67.961 complessivi, (secondo i dati DAP aggiornati al 2010).
Considerando questo risulta difficile pensare ad un processo di rieducazione e di reinserimento nella società e ad un’attuazione della pena che non violi la dignità innata di ciascun individuo. Il docente universitario di diritto costituzionale presso l’università di romatre, Ruotolo assicura che è utile spezzare l’equazione pena = carcere e utilizzare sanzioni amministrative non detentive che sono sempre pene e quindi nell’ottica hegeliana sono anch’esse strumenti idonei ad affermare il diritto, sempre che siano effettive e proporzionate al reato commesso.
Ruotolo sottolinea come sia necessario giungere ad un momento in cui la dignità del detenuto non sarà soltanto riguardata nei termini del divieto dei trattamenti inumani e degradanti, ma potrà essere riguardata in positivo come reale possibilità di espressione della personalità con trattamenti individualizzati. La corte costituzionale ha affermato che: “ chi si trova in uno stato di detenzione, pur privato della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”( sentenza 349 del 1993).
Ciò per il presupposto che colui che subisce una condanna a pena detentiva si deve pur sempre vedere riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive e deve vedersi garantita quella parte di personalità umana che la pena non intacca. In sintonia con il principio di umanità e di rieducazione della pena, i costituenti abolirono la pena di morte, nel rispetto del diritto alla vita, fatti salvi i casi previsti dalle leggi militari di guerra. Con la legge del 1994 la pena di morte è stata eliminata anche dai codici suddetti.
Con legge costituzionale n°1/2007 è scomparsa definitivamente dalla Costituzione qualsiasi riferimento di pena di morte. Passi in avanti e svolte legislative stanno cercando di risolvere l’attuale situazione carceraria italiana in un ottica del rispetto dei diritti umani inalienabili e di chi chiede sia fatta giustizia. Secondo una definizione antichissima ed insuperata di Ulpiano, registrata nel Digesto, la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo.
Se venisse attuata giustizia intesa in tal senso, come afferma Becchi, si avrebbe una “società decente, la quale si realizza quando le istituzioni che la formano non offendono il rispetto che ciascuno individuo dovrebbe avere di sé,(..) la dignità, infatti, non è altro che la rappresentazione del rispetto di sé”. Secondo Capogrossi questo avviene solo se e in quanto è messo in condizione e in grado di poter essere uomo, se è garantito dai bisogni e dalla miseria che gli impediscono di essere e di svolgersi come uomo.
Il carcere, come è stato sottolineato da Haberle, mette in dubbio la dignità, forse non solo la dignità dell’uomo (concreto) ma anche la dignità dell’umanità(astratta). Nella scena del carcere del Faust è compresa la nota frase: “dell’umanità tutto lo strazio mi tocca”. Molto spesso, in nome di un astratto diritto alla sicurezza, lo stato si arroga il diritto di istaurare un rapporto con il detenuto di supremazia speciale, alla luce del quale divengono legittime le più disparate restrizioni dei diritti dei reclusi, che avvengono fuori dalle garanzie previste dalla costituzione, in quanto considerate “naturali” conseguenze dello stato detentivo o implicite nel carcere afflittivo della pena, mettendo a repentaglio la dignità del detenuto stesso, che vede venir meno quella seria di diritti che gli spettano in quanto essere umano.
Secondo Kant l’umanità stessa è una dignità e in quanto degno ogni soggetto deve sempre essere considerato come un fine. Non è lecito da parte di nessuno riferirsi a lui esclusivamente come un mezzo e in ciò consiste la giustizia. Martha Nussbaum sostiene che per aversi dignità l’uomo sia messo nelle condizioni di esprimere le proprie capacità”. Sempre secondo l’autrice “…la dignità è qualcosa che appartiene a tutti gli uomini ma bisogna impegnarsi per creare le condizioni in cui essa possa effettivamente dispiegarsi”.
È proprio la costituzione stessa a segnare la via per il superamento di queste condizioni : non solo in quanto enuncia il principio della funzione rieducativa della pena, non solo in quanto afferma il principio di uguaglianza(articolo 3 costituzione) e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si svolge la sua personalità (articolo 2 costituzione); ma soprattutto in quanto assume un preciso concetto di libertà-dignità, considerato come principio che pervade la Costituzione repubblicana in contrapposizione al principio individualistico e liberale della libertà-proprietà, tipico dell’ordinamento pre- repubblicano.
In qualsiasi futura riforma legislativa in tema carcerario si auspica che venga preso in considerazione l’indicazione che proviene proprio dalla nostra carta costituzionale, ovvero quella di dar valore al libero sviluppo della personalità, espressione prima del principio supremo di libertà- dignità. Esistono infiniti beni materiali e spirituali che possiedono un valore relativo: solo la dignità, tra i beni, possiede valore assoluto. È impossibile tematizzare esaustivamente la dignità, dato che il pensiero, pur se se è in grado di pensare l’assoluto, non è in grado di esaurirne il concetto.
A questo allude lo splendido frammento di Eraclito: “ Per quanto tu possa camminare, e neppur percorrendo l’intera via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima, così profondo è il suo logos”. Buscarino, parlando di dignità, afferma che: “..dignità. Chiamiamo così oggi, almeno nella parte del mondo in cui viviamo, con un termine indefinito e anche oscuro, la nostra differenza con qualunque altro essere di questo mondo, quel marchio che l’uomo, il singolo uomo, si attribuisce come un tatuaggio genetico inalienabile, inalienabile al punto di essere posto, in questa “nuova” prospettiva , come limite insuperabile alla vendetta sociale nell’applicazione del castigo.
La dignità è una sorta di regalità dell’individuo. Qualcuno ci ricorda che questo marchio è quel segno inspiegabile che Dio, all’inizio, aveva posto su Caino per distinguerlo, ma anche per proteggerlo. E i fatti delle origini ci dicono che la nostra discendenza è da Caino: nessuno è Abele”. Al fine di assicurare ad detenuto la possibilità stessa di sviluppare la propria personalità è essenziale che la detenzione non aggravi le sue sofferenze inerenti ad essa(come richiesto dall’attuale articolo 102 delle Regole penitenziarie del Consiglio d’Europa) e che all’interno del carcere siano garantite condizioni di vita umane.
Si auspica, come sostiene Carrara in Programma del corso di diritto criminale, come obiettivo minimo che la pena non divenga”pervertitrice del reo”, non diseduchi anziché rieducare. Attualmente la maggior parte delle carte costituzionale europee contengono al proprio interno norme che tutelano, anche se in modo differente, il detenuto e la sua qualità della vita in carcere, così come le varie dichiarazioni dei diritti sanciscono il rispetto del reo con la necessità di garantirgli il libero sviluppo della propria personalità, in un’ ottica di recupero della persona, dell’uomo.
Passi in avanti devono ancora essere fatti e vari paesi devono ancora adeguarsi a quanto sancito dalle carte internazionali, in ossequio al doveroso rispetto del principio della dignità umana che appartiene a qualunque essere umano in quanto tale. Mi pare opportuno concludere questa breve disquisizione con un passo tratto da Resurrezione di Tolstoj : “Una delle più comuni e diffuse superstizioni è che ciascun individuo abbia soltanto quei dati sentimenti a lui propri; che ci siano individui buono o cattivi, intelligenti o stupidi e via dicendo.
Gli uomini non sono affatto così. Si può dire di un individuo che più spesso sia buono o cattivo; più spesso intelligente che stupido; ma non saremo mai nel giusto se diremo di un individuo che è buono o intelligente e ad un altro che è stupido e cattivo. Eppure è questo il modo che seguiamo per distinguere gli uomini, modo che però non corrisponde a verità. Gli uomini sono come acque dei fiumi; l’’acqua è in tutti una sola, e dappertutto è sempre la stessa; ma ciascun fiume può essere ora stretto e rapido, ora largo e tranquillo, ora puro ora torbido. Così anche gli uomini. Ciascuno reca in sé i germi di tutte le tendenze umane, e a volte altre, e spesso avviene che agisca come fosse tutt’altro da ciò che è, pur restando sempre lo stesso.
"Ma il mutamento può sempre avvenire”.
ELEONORA RECH
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