Islam e Cristianesimo, lo stupore che ci rese grandi


“Solo lo stupore conosce” recitava Gregorio di Nissa, padre della Chiesa del IV secolo. Una verità la sua che pare oggi essersi persa nei meandri del relativismo e del mentapertismo imperante.

Mentre il vescovo della Cappadocia scriveva, un’epoca grandiosa si stava ormai avviando alla sua conclusione: i barbari imperversavano nei territori di Roma, mentre le lotte intestine tra i regnanti e le diatribe cristologiche straziavano l’oriente bizantino. Eppure quella frase risuonò, non sappiamo se ascoltata, tra le mura del monastero nisseno e la sua eco è arrivata fino a noi; intatta ma sempre più flebile.

La verità contenuta in queste tre parole travalica i confini politici e religiosi tanto che, paradossalmente, chi più di altri ha colto il vero valore del messaggio di Gregorio furono più di duecento anni dopo gli stranieri giunti da oriente, quegli arabi che sbaragliarono le armate persiane a Qadisiyya e fecero tremare le mura di Costantinopoli. Dal deserto dell’Arabia alle fertili pianure della Siria in soli pochi anni, basterebbe già questo a rendere straordinaria l’epopea della prima comunità islamica; molto più strabiliante fu però l’incredibile capacità dei califfi di recepire tutta la bellezza artistica e culturale dell’occidente romano cristiano appena conquistato, di rielaborarla per poi farla propria.

Gli studiosi contemporanei tentano, con quella metodologia orrenda tipica del nostro tempo in cui tutto diventa soggettivo e relativo, di valorizzare l’arte preislamica nella penisola arabica anche quando essa evidentemente non regge affatto il confronto non dico con la maestosità della Roma imperiale ma anche solo con il più modesto regno giordano dei nabatei o con la Persia sasanide.

Si può discutere per ore sul fatto che Mecca e Medina fossero città che ospitavano statue e opere d’arte degne di nota, ma sono davvero poca cosa rispetto ad un gioiello come Petra, agli splendidi mosaici delle chiese di Siria, o all’immensità di Santa Sofia. E i primi a rendersene conto furono proprio i musulmani conquistatori.

Invito il lettore a svestirsi dei propri panni di occidentale del nuovo millennio per tentare di indossare, non senza fatica, quelli di un cavaliere arabo che nel 637 mette per la prima volta piede nella Gerusalemme cristiana. Immaginate di entrare nella chiesa del Santo Sepolcro, ammirare i mosaici che adornano i soffitti, la luce che irradia in filamenti luminosi il luogo in cui fu crocifisso il penultimo dei profeti. In bocca l’abituale sapore di sabbia inizia a risultare troppo poco per il cuore di un uomo. Lo stupore dei candelabri e degli ori appesi tra gli archi e le cupole cancella la nostalgia delle umili oasi, dei cammelli e delle carovane.

E anche l’orgoglio di Mecca e Medina si ridimensiona al cospetto delle tante, troppe, chiese della città santa degli infedeli. E così il popolo di Muhammad sente il bisogno di copiare con umiltà la bellezza vista nei territori conquistati. Perché la capacità di stupirsi va di pari passo con l’umiltà di riconoscere nell’altro unabellezza che ancora non ti appartiene. Fu in questo modo che nacque quella potenza islamica capace di dare alla luce meraviglie come quelle che oggi possiamo ammirare il tutto il mediterraneo.

Dalle fontane di Granada ai cristalli di rocca fatimidi, dai mosaici della Cupola della Roccia a quelli della moschea di Damasco, fino ad arrivare alla commovente meraviglia del Taj Mahal e dei giardini persiani di Shiraz. Una potenza artistica, culturale e militare che i regni cristiani hanno invidiato per secoli iniziando quell’altalenante gioco di ribaltamento dei ruoli di maestro e allievo che ha reso entrambi grandi pur nel continuo scontro tra la croce e la mezzaluna. E così lo stesso stupore che pervase il cuore del califfo Umar alla vista di Gerusalemme dovette essere simile a quello che inondò l’animo del Normanno Ruggero quando, nel 1061, sbarcò nella Sicilia musulmana.

Sia il mondo occidentale che quello musulmano hanno gradualmente perso la memoria della loro stessa storia, delle loro radici, dei loro successi reagendo a questo smarrimento in maniere diametralmente opposte. Da una parte il più bieco buonismo che nasconde però una stima pressoché nulla dell’alterità; dall’altra l’insorgere di un odio senza fine, un cancro che ha assunto diversi nomi (ISIS è solo l’ultimo) nell’ultimo secolo e le cui metastasi continuano a moltiplicarsi. L’epoca dello stupore che conosce e crea bellezza pare terminata, la speranza è che impolverata tra le pieghe della storia la eco della voce di Gregorio ritorni ad essere udita da orecchie tanto umili quanto degne di percepirla.


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